La polemicucina, antiaderenze, fin dal titolo dal doppio significato di non aderenza del cibo e di non aderenza dell’uomo libero a un sistema o a una forma mentis precotta da altri, indica al lettore che non si trova davanti al solito libro su come preparare del buon cibo e mettersi a tavola vivendo in allegria. Non che le ricette non siano vere, con tanto di ingredienti, dosi e procedure di preparazione, sono fattibilissime, provare per credere! Però c’è qualcos’altro: un messaggio su cui riflettere che parte dal cibo ma va oltre il cibo.

Del resto l’atto del mangiare, del preparare, dello sminuzzare, procurarsi ingredienti, etc. , ha veicolato e veicola da sempre significati simbolici.

Il cibo sta ovunque e non solo nei libri di cucina. Favole, letteratura fantastica e metafisica, letteratura satirica e realistica, sono piene di cibi.

Si pensi al Pinocchio di Collodi in cui la fame e il cibo si alternano per supportare valori e disvalori morali; alle bevute e mangiate del Gargantua e Pantaguele di Rabelais; alle “golose” di Guido Gozzano, e ancora prima a tanta parte di letteratura latina in cui il cibo è veicolo di significati che lo superano. La famosa cena di Trimalcione esaspera la ridicola sovrabbondanza del parvenu, la rozzezza culinaria dell’ostentazione.

L’iperbolico diventa strumento di satira di una società in declino. E anche qui le ricette si prestano ad un innesto con una critica sottesa, politicamente anche un poco scorretta, a disdetta di benpensanti e bigotte in un’epoca in cui la censura è diventata la regola costante del vivere cibandosi di nulla.

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