Nell'anno che i posteri chiameranno 753 prima della nascita di quel Cristo che ancora deve venire, sulle rive del biondo Tevere - fiume che scorre pigro come il sangue nelle vene di un vecchio patrizio - un uomo dalla volontà ferrea quanto il metallo che darà il nome alle sue legioni, traccia un solco. Il vomere dell'aratro incide la terra umida, segnando il confine tra ciò che sarà e ciò che non è mai stato.

Questo uomo è Romolo, figlio della lupa, gemello del destino, e il solco che traccia è il primo vagito di Roma. Le mura si ergono come per magia, pietra su pietra, mattone su mattone.

Il sudore degli uomini si mescola alla polvere, creando una malta più forte del bronzo. Presto, là dove prima c'erano solo colline coperte di querce e olivi, si stagliano edifici che sfidano il cielo.

Il Palatino, l'Aventino, il Campidoglio: nomi che risuoneranno attraverso i millenni, echi di una grandezza ancora da venire. Ma Romolo, con quella saggezza che solo i fondatori di imperi possiedono, sa che le pietre non bastano a fare una città.

Una città è fatta di voci, di risate, di pianti. È fatta di vita che si rinnova, di generazioni che si susseguono come le onde del mare.

E qui, in questa Roma nascente, manca l'elemento essenziale di ogni società umana: le donne. .